La genetica del giudizio morale

Immaginate di trovarvi su un ponte che sovrasta una ferrovia, quando improvvisamente notate che cinque persone sono legate a un binario sul quale sta sopraggiungendo un treno a grande velocità. Fortunatamente, avete la possibilità di salvarle: vicino a voi c’è infatti una leva in grado di attivare uno scambio che devierebbe il treno sul secondo binario. Ahimé, vi accorgete però che anche sull’altro binario c’è qualcuno legato, ma stavolta è una persona sola. Cosa decidete di fare? Attivate lo scambio, uccidendo una persona ma salvandone cinque, oppure assistete impassibile alla morte di cinque disgraziati?

Cambio di scenario. Questa volta siete sullo stesso ponte, con il solito treno in arrivo e i soliti cinque malcapitati legati su un binario. Sul secondo binario non c’è invece nessuno, quindi in teoria potreste salvare il gruppetto con facilità. Ma così sarebbe troppo facile! Stavolta la leva non attiva uno scambio, bensì una botola che si trova sul ponte esattamente sopra il primo binario, e sulla quale c’è un signore che legge il giornale. Aprendo la botola, il signore precipiterebbe davanti al treno, morendo sul colpo e arrestando in questo modo raccappricciante la corsa del treno. Anche qui potreste salvare cinque persone sacrificandone una. Fareste la stessa scelta della prima situazione?

L’esito delle vostre azioni nei due scenari sarebbe identico, ma sono pronto a scommettere che le vostre sensazioni a riguardo sono molto diverse. Nel primo caso, infatti, la morte della persona sul secondo binario sarebbe un effetto collaterale della vostra azione volta a un bene più grande, cioè al salvataggio delle altre cinque. Nel secondo caso, invece, si tratterebbe di un danno intenzionale, in cui deliberatamente mandate una persona che non c’entrava nulla incontro alla morte. Generalmente le persone trovano più accettabile il primo caso rispetto al secondo, ma uno studio pubblicato su PLoS ONE dimostra che la faccenda è più complicata di quanto sembri: il giudizio morale, infatti, è anche una questione genetica.

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Gli autori dello studio hanno voluto valutare i comportamenti di un gruppo di persone davanti a scenari come quelli descritti, dividendo i partecipanti in tre gruppi a seconda che possedessero nessuna, una o due copie di una particolare variante genetica. Il gene in questione (5-HTT) è il trasportatore della serotonina, un neurotrasmettitore che regola moltissimi processi tra cui l’umore, il sonno e l’appetito. La variante incriminata è abbastanza nota: si tratta della versione corta (S, come Short) della sequenza promotore di questo gene. La scelta degli autori è sensata, perché studi precedenti avevano già dimostrato che i portatori di questa variante (soprattutto i soggetti SS, che ne hanno due copie) sono maggiormente sensibili agli stimoli ambientali e più facilmente condizionabili.

I risultati dello studio mostrano che la presenza della variante S altera anche il giudizio morale. Come si vede dal grafico riportato, i soggetti con due copie della variante lunga (LL) tendono a giudicare più accettabili comportamenti in cui si reca un danno non intenzionale a un’altra persona. Quando invece ci si trova nello scenario peggiore, come il secondo che ho descritto, allora i tre gruppi di persone si comportano allo stesso modo.

Chi ha una o due varianti corte nel gene 5-HTT tende a farsi quindi più scrupoli nel compiere un’azione che possa fare del male involontariamente a un’altra persona, probabilmente perché questi soggetti – essendo emotivamente più condizionati dall’ambiente – provano una maggiore empatia nei confronti della potenziale vittima e percepiscono come immorale la scelta di farle del male. I portatori della variante lunga, invece, sono in media più portati a ragionare in modo lucido e utilitaristico: per loro, uccidere una persona è sicuramente meglio che ucciderne cinque. Fine della discussione.

I risultati dello studio sono in linea con molti lavori pubblicati in precedenza. Fin dallo studio di Avshalom Caspi nel 2003, sappiamo che i soggetti SS sono maggiormente influenzati dagli eventi stressanti e da maltrattamenti subiti nell’infanzia: in situazioni negative come queste, gli SS reagiscono peggio, manifestando ansia e sintomi depressivi. L’effetto dell’ambiente, però, vale anche nel senso opposto. Se cresciuti in un buon contesto famigliare, i bambini SS ne traggono un vantaggio maggiore rispetto agli altri: diventano più vitali, più curiosi e pieni di energia. A confermarlo è uno studio appena pubblicato su Translational Psychiatry, che ribadisce la maggiore sensibilità ed emotività dei soggetti SS, sia in contesti positivi che in contesti negativi.

In passato si è parlato di “gene della depressione” e di “gene della felicità”, ma quello che sembra emergere da tutti questi studi è che il 5-HTT non è nient’altro che il gene della sensibilità. Aveva ragione il giornalista David Dobbs, quando riferendosi ai bambini SS li definì bambini orchidea: fragili, emotivi, appassiscono facilmente. Ma se accuditi con amore diventano fiori meravigliosi.


Marsh, A., Crowe, S., Yu, H., Gorodetsky, E., Goldman, D., & Blair, R. (2011). Serotonin Transporter Genotype (5-HTTLPR) Predicts Utilitarian Moral Judgments PLoS ONE, 6 (10) DOI: 10.1371/journal.pone.0025148

Esiste il gene della felicità?

Fin dall’antichità gli uomini si sono interrogati sulla felicità e su quale fosse il modo più efficace per raggiungerla. Tutti vogliamo essere felici nel corso della nostra vita, anche se magari seguiamo strade diverse per diventarlo. Chissà cosa penserebbe Epicuro – che in materia di felicità era un vero esperto – della recente scoperta pubblicata sul Journal of Human Genetics, secondo la quale questo stato d’animo sarebbe determinato in parte dai nostri geni. Jan-Emmanuel De Neve della School of Economics di Londra ha infatti scoperto un interessante collegamento tra la felicità di un individuo e il gene 5-HTT.

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Questo gene riveste una funzione fondamentale nel nostro cervello. Contiene infatti le istruzioni per fabbricare il trasportatore della serotonina, un neurotrasmettitore particolarmente attivo nel mesencefalo. Quando un neurone pre-sinaptico utilizza la serotonina per lanciare un messaggio, questa deve poi essere riassorbita, in modo da poterla riutilizzare in futuro: è qui che interviene il trasportatore codificato dal gene 5-HTT. Più trasportatori sono presenti sulla membrana cellulare, maggiore sarà l’efficienza del riassorbimento. Non è una questione di poco conto, perché la serotonina entra nei processi più disparati e di conseguenza i suoi movimenti devono essere ben controllati: questo neurotrasmettitore regola infatti l’umore, il sonno, la temperatura corporea, l’appetito e perfino aspetti della sessualità. A determinare il numero di trasportatori presenti in membrana è la sequenza promotore del gene 5-HTT, che nell’uomo può presentarsi in due versioni: una versione corta (S) e una lunga (L). La versione lunga ha 44 nucleotidi in più, ed è associata a un’attività molto maggiore (circa 3 volte rispetto alla variante corta). Gli individui che hanno due versioni lunghe (L/L) producono molti più trasportatori rispetto agli S/S, e sono quindi più “bravi” nel recuperare la serotonina dalle sinapsi e reimmagazzinarla nelle apposite vescicole.

Molti ricercatori, in passato, si sono occupati del promotore del gene 5-HTT. In questo caso, sono state analizzate le risposte date da 2574 adolescenti alla domanda “Quanto sei soddisfatto complessivamente della tua vita?”, confrontandole con le varianti possedute dai partecipanti. Tra i ragazzi che avevano risposto “Molto soddisfatto”, il 35% era omozigote per la variante lunga (L/L), mentre solo il 19% era omozigote per la variante corta (S/S). Tra coloro che invece si erano dichiarati insoddisfatti, le percentuali si ribaltavano: gli S/S erano il 26% e gli L/L il 20. Insomma, i possessori della variante più efficiente del promotore di 5-HTT sembravano essere mediamente più felici rispetto a chi ne era privo. La correlazione era statisticamente significativa (p-value = 0.01) e non dipendeva dal gruppo etnico dei partecipanti.

Ovviamente, l’autore della ricerca ci tiene a sottolineare di non avere scoperto il “gene della felicità”, perché, come in tutti i tratti complessi e in particolar modo nei tratti comportamentali, i fattori coinvolti sono moltissimi, sia di tipo genetico che di tipo ambientale. Senza cadere nella trappola del sensazionalismo, è giusto tuttavia ricordare che il gene 5-HTT non è nuovo a queste associazioni. In particolare, nel 2003 si scoprì che gli individui portatori dell’allele corto mostravano più sintomi depressivi e persino un maggior tasso di suicidi, se queste persone subivano eventi stressanti o se avevano subìto dei maltrattamenti da piccoli. Differenze nella risposta emotiva, che poi possono portare nei casi peggiori a veri e propri disturbi psicologici, si riscontrano anche negli studi morfometrici, che hanno evidenziato una diversa attività in alcune aree del cervello in seguito a stimoli emotivi, sia positivi sia negativi. Non sorprende quindi che il promotore di 5-HTT sia legato anche alla felicità: siamo di fronte a un gene speciale, che determina la nostra capacità di processare le emozioni e di reagire alle esperienze di vita, belle o brutte che siano. La ricerca della felicità continua, ma questa volta, oltre ai filosofi, anche i genetisti hanno qualcosa da dire.


De Neve, J. (2011). Functional polymorphism (5-HTTLPR) in the serotonin transporter gene is associated with subjective well-being: evidence from a US nationally representative sample Journal of Human Genetics DOI: 10.1038/jhg.2011.39