Personal genomics, è già tutto finito?

La scorsa settimana il Parlamento americano ha avviato un’indagine conoscitiva nei confronti delle aziende di personal genomics, con lo scopo di valutare se queste società possano o meno offrire i loro test genetici ai consumatori. Il tutto è scaturito in seguito all’iniziativa della Pathway Genomics, immediatamente bloccata dalla FDA, di vendere i propri kit nei supermercati della catena Walgreens.

James Plante, Vance Vanier e Anne Wojcicki, rispettivamente presidenti di Pathway Genomics, Navigenics e 23andMe si sono visti recapitare mercoledì 19 Maggio una lettera firmata dal Comitato per l’Energia e il Commercio, nella quale le tre aziende sono invitate a fornire entro il 4 giugno informazioni dettagliate sui test commercializzati. In particolare, viene richiesto di spiegare come vengono analizzati i risultati e quanto sono accurate le predizioni fatte, relative al rischio di insorgenza di patologie o alla risposta a farmaci.

Tutte le società hanno detto di essere aperte alla collaborazione in questa fase di valutazione: sul sito della Pathway Genomics e sui blog ufficiali di Navigenics and 23andMe appaiono dichiarazioni ottimistiche sul buon esito dell’indagine. In realtà, se anche l’indagine del Comitato dovesse finire male, molte delle aziende interessate avrebbero le spalle coperte, in quanto l’offerta al consumatore è già stata divisa in due categorie di prodotti: i test a scopo “ricreativo” (come quelli per la ricerca genealogica) sono stati separati da quelli più seri, riguardanti la predizione della suscettibilità a patologie. In questo modo, se il Comitato dovesse pronunciarsi negativamente e decidere di proibire la vendita dei test, quantomeno la prima categoria potrebbe continuare ad esistere.

Alcuni dubitano che la FDA, l’ente che per prima aveva sollevato la questione, abbia le competenze per legiferare sul settore della personal genomics. Su questo preferisco non pronunciarmi, non essendo americano non so come questo organismo di controllo si sia comportato in passato. Certo qualche dubbio è legittimo, dal momento che sembra alquanto strano che soltanto ora sia diventato necessario regolamentare la vendita dei test genetici: la 23andMe, ad esempio, è stata fondata nel 2006, e da allora ha sempre offerto online i propri servizi. “La mossa dei dirigenti della Pathway Genomics di acquistare visibilità ha raggiunto il suo scopo e li ha portati alla nostra attenzione” hanno dichiarato alla FDA, come se dal punto di vista legislativo ci fosse differenza tra vendere un prodotto online o in un supermercato.

Staremo a vedere quello che succederà. Io non so se il settore della personal genomics debba essere regolamentato in modo severo; la mia opinione personale è che questi test producono dati di diversa natura e le normative andrebbero diversificate di conseguenza. Ad esempio dovrebbero essere prese in considerazione le effettive correlazioni tra il marker genetico e l’insorgenza della patologia, la gravità della patologia stessa e soprattutto le possibili precauzioni e modalità di cura esistenti per quella particolare malattia: non credo sia sensato comunicare al paziente che potrebbe ammalarsi di una malattia per cui non si conoscono cure, ad esempio.

Ad ogni modo, la mia è solo un’opinione come tante altre, proprio come quella di chi sostiene che rivelare a un cliente il suo rischio di ammalarsi di cancro potrebbe avere conseguenze devastanti dal punto di vista psicologico. A mio avviso non si può imporre regole sulla base di opinioni che non necessariamente trovano riscontro nella realtà. Le regole devono basarsi su dati reali: chiediamo alla gente cosa ne pensa! Domandiamo a chi si è sottoposto a questi test come ha reagito alla vista dei risultati! Una legge sensata può arrivare solo da qui, altrimenti sarebbe solo un’imposizione fondata su preconcetti.

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